Quando il gioco lo fanno i bari i duri smettono di giocare

Nei nostri ormai lunghi anni di militanza politica, chi prima nel P.C.I, chi poi in Rifondazione Comunista o in altri aggregati, ci siamo impegnati con caparbietà nell’impegno militante e nell’attività politica durante le tante elezioni vissute e nonostante le sconfitte subite dal movimento operaio dagli anni ’80 in poi e la conseguente deriva politica e sociale del nostro Paese, quasi da sembrare ispirati dall’incitazione di Bluto (alias John Belushi) nel film Animal House: quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare.

In tanti abbiamo tenuto duro dopo la liquidazione del P.C.I, abbiamo tenuto duro nonostante le ambiguità e giravolte del PRC, rivoluzionario nelle piazze e subalterno ai vari governi moderati di sinistra, abbiamo tenuto duro pensando che i duri, prima o poi, avrebbero avuto la forza e il coraggio di rovesciare la situazione: testardi, nonostante negli ultimi anni sia diventato evidente, persino a noi (duri), che il gioco della democrazia non poteva assolutamente mutare lo stato di cose presenti, nemmeno nel remoto caso in cui i duri avessero vinto e sconfitto le altre liste in gara.

Persino i duri e testardi come noi dovrebbero perciò aver capito che, ormai, partecipare all’esercizio democratico del voto è come intestardirsi a giocare a poker in un tavolo di bari: non puoi vincere.

Basterebbe osservare cos’è successo e cosa sta succedendo in Grecia dove, nonostante gli impegni e le promesse, la sinistra è prigioniera dell’impossibilità di cambiare; oppure basterebbe analizzare quanto vale il voto in Spagna a cominciare dall’indipendenza della Catalogna. Se poi si allargasse l’orizzonte e si volesse osservare l’america del Sud, magari il Venezuela (dove nonostante le ripetute vittorie elettorali l’attacco imperialista non demorde) o l’Honduras, la risposta alla domanda che peso hanno gli elettori di fronte al Fondo Monetario, all’Europa o alle centrali dell’imperialismo sarebbe nessun peso.

In Italia quanto conta il voto dell’elettore sull’azione dei governi e del parlamento? Anche qui da noi non è poi così diverso da quanto succede in Grecia: quanto ha contato la volontà degli elettori che si sono espressi negli ultimi referendum popolari sull’acqua pubblica o sulla Costituzione? Nulla.

Giocare al tavolo dei bari anche avendo carte buone significa che sicuramente, comunque, perderai. Tu puoi anche tenere duro e continuare a giocare, anche solo per partecipare al gioco, ma devi essere consapevole che è semplicemente inutile.

Quindi?

Quindi, ora che il gioco si è fatto davvero duro, anzi durissimo, i duri per prima cosa devono capire che giocare è sbagliato. Bisogna abbandonare il tavolo dei bari: non votare è il primo atto di una presa di coscienza, il primo atto di rottura con il presente stato di cose marcio e corrotto.

Anche andare a votare per rappresentare un’idea, un simbolo, per quanto atto lodevole, significa oggi alimentare un’ambiguità e, per di più, legittimare il tavolo dei bari.

Chi, poi, ancora si illudesse, votando liste o luccicanti coalizioni con programmi “alternativi”, dovrebbe interrogarsi seriamente sui soggetti promotori, sulla loro storia recente e passata, per poter svelare facilmente illusioni ormai vecchie e stantie sulla forza delle varie società civili o moltitudini.

Nel tavolo dei bari elettorali c’è anche chi giura di essere diverso da tutti gli altri, come nel caso del M5S, ma mentre lo dichiara si scambia le carte da gioco con gli altri bari.

Non votare non come atto qualunquista, non come resa, ma come rifiuto di un sistema democratico oggi falsato e falso.

E’ importante non farsi distrarre dal caravan serraglio, dal circo Barnum delle finte contese, dalle illusioni delle promesse elettorali, tanto è sicuro che chiunque domani vincerà non cambierà nulla: senza soluzione di continuità le classi dominanti e i loro lacché procederanno impeturbate nelle loro politiche di lacrime e sangue. La politica dei politicanti fatta per dividere i lavoratori dai disoccupati, i poveri dai più poveri, va, né più né meno, ignorata.

Discorso diverso è quello che coinvolge ad ogni scadenza elettorale migliaia di compagni (sebbene in numero inesorabilmente descrescente) che percorrono strade già viste e conosciute. Spinti dall’incrollabile fede che comunque qualcosa debba essere fatto e seppur consapevoli della scarsa probabilità di raggiungere un traguardo (un modesto diritto di tribuna sugli scranni del parlamento) credono che attraverso quel circo mediatico e in quelle tempistiche elettorali si possa comunque contribuire a far rinascere qualcosa. Ciò è profondamente sbagliato, ancor quando animato da onesta volontà.

Nei pressi delle scadenze elettorali si esaltano le differenze e, inoltre, i vecchi vizi di gruppi dirigenti avvezzi alle giostre elettorali prendono le redini del gioco: un gioco che termina il giorno dopo le elezioni.

L’unità, anche quella elettorale e pur con regole non falsate, è più che una semplice sommatoria: è un processo lungo che deve partire fuori dalle scadenze scadenzate da una borghesia finanziaria che quello spazio (fintamente) democratico ha costruito in questi decenni. Quello che occorre letteralmente ricostruire è la politica che si occupa delle nostre condizioni di vita, di studio, di lavoro.

Fino a qualche decennio fa la politica (anche nelle fasi elettorali) era il terreno di confronto delle idee e dei progetti, il momento della mediazione dei conflitti sociali. Per una lunga fase lo Stato, pur nella consapevolezza piena del suo ruolo e funzione storici, era però ancora un soggetto attivo e adattabile alle politiche decise da un parlamento rappresentativo di valori e istanze che rappresentavano determinati rapporti di forza nella società italiana.

Negli ultimi decenni, assoggettato completamente alle regole della globalizzazione finanziaria dell’economia mondiale, esso è progressivamente svanito; non svolge più nessuna funzione di intervento nell’economia del Paese e tende a scomparire anche nella funzione di equilibratore delle differenze tra le classi sociali, a partire dall’istruzione, dalla tutela della salute e del lavoro. I bilanci statali sono definiti sotto il rigido controllo di istituti sovranazionali che agiscono al di fuori del controllo democratico. Lo Stato scompare anche sotto il profilo della difesa del territorio, avendo interamente delegato questo compito a strutture militari extranazionali come la Nato, che è sotto il diretto controllo degli stessi apparati finanziari che controllano l’economia del nostro Paese. La principale funzione che sembra mantenere per intero è quella dell’ordine pubblico per la repressione delle lotte sociali.

Forse prima di concentrare le energie sul voto sarebbe importante abbandonare il vizio del gioco (perché a ben guardare solo di questo si tratta) e spendere le energie per studiare a fondo il punto a cui siamo giunti: il rapporto fra la classe dei lavoratori e lo stato (piuttosto che esercitarsi in tifoserie da stadio su un sovranismo figlio delle pulsioni borghesi – proprio perché lo stato era ed è l’organizzazione delle classi dominati) e sull’architettura istituzionale ed europea post 89. L’alternativa è quella di procedere a occhi chiusi nel buio della post modernità.

Un Partito Comunista, che non fosse la ridicola macchietta utile, nel migliore dei casi, a riempire i talk-show del circo elettorale, dovrebbe alzarsi dal tavolo dei bari e rifiutarsi di giocare e dovrebbe lavorare da subito a costruire un nuovo progetto di Stato autonomo, sovrano e socialista; dovrebbe cominciare dal punto base della rottura capitalistica cioè la costruzione di casematte, per dirla con Gramsci, di resistenza e azione; ricostruire attraverso azioni solidali e mutualistiche l’alternativa di scuola, di sanità, di cultura, di sport, di produzione, di difesa del territorio dalle rapine di suolo e di verde; ricostruire insomma un nuovo Stato dal basso, popolare, attraverso un processo rivoluzionario che rovesci il tavolo dei bari fino ad indire, semmai, vere elezioni per eleggere rappresentanti del popolo che non siedano in Parlamento ma che invece guidino le lotte contro lo sfruttamento nei luoghi di lavoro, organizzino il lavoro per i disoccupati, costruiscano le nuove organizzazioni sociali base del nuovo Stato Italiano, che organizzino la solidarietà internazionale con tutti coloro i quali vogliono liberarsi dal dominio del colonialimo finanziario e dall’imperialismo militare al servizio del capitale.

Sappiamo bene quanto ad una prima lettura tutto ciò possa apparire semplicistico se non velleitario. Ma questo è il punto (non colto nell’anno appena trascorso che ha celebrato, spesso in modo retorico il centenario del ’17): il compito storico dei comunisti ovvero il loro essere motore della rivoluzione e non della conservazione.

Trascinarsi stancamente di tornata elettorale in tornata elettorale, di banchino in banchino per la raccolta delle firme, non fa che condannarci ad un ruolo marginale, stringerci nell’angolo della residualità, dell’eterna giostra di giochi esistenziali.

Recuperare dunque un ruolo e un compito nella società, una prassi che muova la nostra azione nella direzione della rivoluzione e che liberi tutta la potenza dei nostri strumenti non più messi al servizio di appuntamenti svuotati del loro significato: questo l’obiettivo prioritario.

Ecco che oggi il non voto non offende la nostra storia, non ci porta fuori dal solco della Resistenza, ma fuori da quella linea di binari che con la vittoria schiacciante dell’ideologia borghese, ha fatto deragliare le migliori forze della società novecentesca verso una linea morta, dove sopravvivono solo riti e rituali.

Il non voto diventa un atto rivoluzionario è, se compiuto con coscienza e agito con una prassi coerente nella società, un atto di resistenza, un mattone nella costruzione di un soggetto organizzato della classe. Al punto cui siamo giunti è un’idea che vale la pena di percorrere…oggi che il gioco si è fatto durissimo!

Immagine di copertina liberamente presa qui

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One thought on “Quando il gioco lo fanno i bari i duri smettono di giocare

  1. caro Gianni Favaro, sono COMPLETAMENTE d’accordo con questo tuo articolo, quel tanto che anch’io sommessamente sto lavorando in questa tua direzione.

    Ciao Gianni

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