Sull’attualità di un approccio marxista ai problemi ambientali: il conflitto capitale-natura

La ricostruzione di un soggetto politico comunista si deve basare, necessariamente, su un percorso di rigenerazione della capacità di analisi della realtà in cui viviamo. Senza questo impegno e questo sforzo il rischio che si corre è quello di definirsi “comunisti” senza tuttavia una nostra autonoma e peculiare capacità di elaborazione su cui basare la lotta politica, rimanendo quindi nell’ombra di una prassi compatibile con il sistema capitalista (e dunque non-rivoluzionaria, in questo senso).
Questa rigenerazione degli strumenti culturali è estremamente profonda e complessa. È nostra convinzione che essa non possa eludere la tematica dei problemi ambientali, cioè la rivisitazione e la rielaborazione del tema conflitto capitale-natura. Tale convinzione è confermata anche dalla cronaca socio-politica contemporanea: sono sempre più numerosi e all’ordine del giorno gli episodi di malaffare, intrighi politico-economici, giochi di potere nelle amministrazioni locali che hanno come sfondo, se non come argomento principale, un “problema ambientale” (ciclo del trattamento dei rifiuti, siti contaminati, depurazione di acque reflue, ecc.).
Dal punto di vista di una lettura marxista, ciò significa che ormai nella maggior parte dei fenomeni che ci troviamo ad analizzare occorre affiancare alla categoria del cosiddetto “conflitto principale” (quello capitale-lavoro) quella del conflitto capitale-natura. Tutto questo dovrebbe avere alla sua base l’assunto del profondo rifiuto di considerare le problematiche ambientali (o sensibilità ecologica) come problemi che riguardano tutti, come un tema interclassista: destra e sinistra, impresa e lavoratori. Questa tesi (drammaticamente diffusa all’interno dell’opinione pubblica) si basa sul fatto che l’ecologia, trattando temi e questioni essenziali, coglie un’esigenza vitale di tutti. Questo approccio può essere disinnescato solo legando questi problemi a una rinnovata analisi delle strutture economico-sociali del capitalismo. E conseguentemente all’elaborazione di una strategia politica di trasformazione della società che tenga conto anche dei rapporti uomo-natura. Altrimenti l’ecologia sarà sempre letta e praticata nella sua veste “borghese-produttivistica” o in quella “conservazionista-catastrofista”; e crediamo che entrambe non debbano appartenere alla cultura politica dei comunisti del XXI secolo.

 

Da dove ripartire

Chiunque voglia intraprendere questa chiave di lettura può contare, come sempre, su una vasta fonte di studi e interpretazioni elaborate nel passato. Le radici di queste fonti affondano, principalmente, nell’opera di Marx e negli studi della stessa fatti più recentemente.
In particolare, dobbiamo ricordare la categoria delle condizioni di produzione da cui Marx parte nel descrivere il processo di produzione. Esse rappresentano tutte le cose rispetto alle quali la produzione non può prescindere. Quell’apparato necessario affinché la produzione possa muovere i suoi passi. Marx individua diversi tipi di condizione di produzione: la forza lavoro umana o condizioni personali (ad esempio il benessere fisico e mentale dei lavoratori, il loro livello di socializzazione, ecc.); le condizioni generali (mezzi di comunicazione e trasporto, si veda ad esempio [1], Libro I, Sezione IV, p.285); infine, quelle che a noi più interessano in questo contesto, le condizioni fisiche esterne, o oggettive o naturali (si veda ad esempio [1], Libro I, Sezione V, p. 375). Queste ultime sono rappresentate dalla natura (in senso lato), e in particolare dai mezzi di sussistenza (ad esempio la fertilità della terra) e i mezzi di lavoro (cascate d’acqua costanti, fiumi, legname, carbone, ecc.). Dunque, al pari delle altre condizioni, la produzione deve continuamente fare i conti anche con quelle naturali, che il capitale tratta come merce nonostante esse non siano state prodotte come merce. Per spiegare meglio, riportiamo qui due frasi di Marx che chiariscono bene questo concetto (Cfr. [1], Libro I, Sezione I, p. 148):

“Oltre alle cose che trasmettono l’azione del lavoro al suo oggetto e quindi fungono in qualche maniera da conduttori dell’attività, il processo lavorativo conta tra i suoi mezzi, in un significato più esteso, anche tutte le condizioni oggettive che sono generalmente necessarie al suo accadere. Tali condizioni non fanno parte direttamente del processo lavorativo, ma questo, se esse non vi sono può svolgersi per niente o svolgersi solo in maniera incompleta. La terra stessa è di nuovo l’universale mezzo di lavoro di tal genere, in quanto essa offre al lavoratore il locus standi e al processo lavorativo il suo campo d’azione (field of employment)”.

E ancora (Cfr. [1], Libro I, Sezione V, p. 376):

“Nella storia dell’industria il momento principale è costituito dalla necessità di controllare socialmente una forza naturale, di economizzarla, di impadronirsene per la prima volta o di sottometterla per mezzo della mano dell’uomo in larga misura”.

Una trattazione più completa delle condizioni di produzione in Marx è svolta da O’Connor in [2] e [3]. Ma qui vogliamo sottolineare quanto il problema del rapporto fra produzione e natura fosse già ben presente e analizzato in Marx (si veda anche [5]).
Ciò è rilevante, soprattutto dal punto di vista politico, per contrastare tutte quelle tesi che asseriscono l’inadeguatezza dell’apparato culturale marxista rispetto a problemi di questo tipo.
Tornando a Marx, è noto come egli individui come contraddizione principale del capitalismo quella che deriva dal crescere della centralizzazione dei mezzi di produzione e di plusvalore prodotto, che tuttavia si accompagnano a uno sfruttamento sempre maggiore della forza-lavoro e, quindi, a una carenza specifica di domanda di merci (contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione). Dunque possiamo leggere questo processo (che si manifesta come una crisi da realizzo) come la contraddizione fra forze di produzione e forza-lavoro (o condizioni di produzione personali, come le abbiamo chiamate). Il capitale nel suo svilupparsi tende a logorare questa condizione di produzione (tramite lo sfruttamento) che tuttavia è necessaria e fondamentale per il suo sviluppo.
Ma il sistema capitalistico entra in contraddizione anche a causa del conflitto con le condizioni di produzione naturali. Infatti, il capitale nella sua fase ascendente e di espansione tende a dilatare la parte di natura non trasformata dall’uomo (ad esempio per l’approvvigionamento di nuove fonti energetiche come il petrolio). La crisi ecologica (che chiamiamo anche conflitto capitale-natura) nasce quando questa tendenza si ferma e anzi si inverte. Questo perché il capitalismo nella sua fase di accrescimento, cercando sempre di realizzare il massimo profitto senza pianificare uno sviluppo controllato, provoca il logoramento o la vanificazione delle risorse naturali. E quindi, non essendo possibile una contemporanea ristrutturazione naturale di tali risorse (è vero, infatti, che la natura tende a “ristrutturarsi” autonomamente, ma il problema evidente è che tale processo è di gran lunga più lento dei processi di produzione che la “destrutturano”), la crescita della natura umanizzata provoca al tempo stesso la riduzione di quella disponibile, o “umanizzabile” (questo passaggio è ben spiegato da Prestipino in [4]).
Riassumendo, dunque, il capitale incontra limiti (auto prodotti) di spazio, buona terra, aria pulita, acqua, materie prime, energia, ecc.; deve cioè affrontare, nella sua fase di sviluppo e accrescimento, un deficit di flessibilità che si manifesta sotto forma di crisi economica da costi. Nel linguaggio industriale e manageriale contemporaneo, potremmo dire (come di fatto è) che il capitale oggi ha di fronte due problemi: l’aumento dei costi e il basso livello di domanda; dunque esso è ossessionatamente alla ricerca sia dell’innovazione di processo (o taglio dei costi) sia dell’innovazione di prodotto (o allargamento del mercato).
Questa doppia lettura delle contraddizioni del capitalismo è proprio lo schema di comprensione essenziale che occorre tenere presente nell’analisi dei “problemi ambientali” che vorremmo analizzare e risolvere. E’ utile sottolineare, ancora una volta, come già Marx fosse sensibile a questa doppia lama del processo capitalista. Egli nel Capitale si riferisce spesso alla terra (intendendo con essa la natura in senso lato) parlando del rapporto fra agricoltura e industria. Ne è un esempio la citazione seguente (Cfr. [1], Libro I, Sezione IV, p. 370):

“[…] la produzione capitalistica da un lato accumula la forza motrice storica della società, dall’altro si intromette nel ricambio materiale tra uomo e terra, cioè nel ritorno a quest’ultima dei suoi elementi costitutivi che l’uomo ha consumato sotto forma di mezzi di nutrizione e di abbigliamento, sconvolgendo con questo la imperitura condizione di una costante fertilità della terra. […] Distruggendo le circostanze di quel ricambio naturale postesi in maniera del tutto spontanea, obbliga a produrre sistematicamente tale ricambio, come legge regolatrice della produzione sociale e in una forma adeguata al pieno sviluppo dell’uomo. […] Così ogni processo compiuto dall’agricoltura capitalistica equivale a un progresso non solo nell’arte di derubare l’operaio, ma anche in quella di spogliare la terra, ogni progresso che aumenta la sua fertilità in un certo lasso di tempo equivale a un processo nella distruzione delle costanti sorgenti di tale fertilità. […] Perciò la produzione capitalistica sviluppa la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale di ogni ricchezza: la terra e l’operaio”.

Anche solo questo passaggio ci fa capire come in Marx il problema del conflitto fra capitale e natura fosse presente. Certamente egli non potette svilupparlo riferendosi all’approvvigionamento delle risorse energetiche o idriche, poiché all’epoca tale tema non era all’ordine del giorno. Ecco perché queste riflessioni sono sempre riferite al rapporto fra agricoltura industrializzata e terra. Non possiamo, dunque, aspettarci di trovare le risposte già pronte nei suoi scritti: e infatti, come dicevamo poco sopra, non dobbiamo considerare le teorie marxiste come “dogmi”, ma al contrario come metodo d’analisi. Sta a noi aggiornarle ed applicarle alle nuove problematiche che abbiamo di fronte.

 

La risposta del capitale e il ruolo dello Stato

Per superare la contraddizione con l’ambiente, il capitale cerca di ristrutturare le condizioni di produzione naturali. Questa ristrutturazione avviene prima di tutto sviluppando un’industria del disinquinamento. Una parte di capitale, cioè, si riconverte in investimento per creare quella che Busetto in [4] definisce impiantistica del disinquinamento (ad esempio aziende che bonificano i terreni, industrie che depurano le acque, ecc.). Sia chiaro: le azioni che di per sé vengono effettuate da questo settore industriale sono effettivamente utili e necessarie per un tentativo di ricreare l’equilibrio naturale esistente (o quanto meno di mitigare gli effetti del disequilibrio). Non stiamo ovviamente affermando che ciò sia una falsità. Ma il problema è che sin quando tali azioni rimangono interne al sistema produttivo capitalistico, non si riuscirà mai ad avere benefici a lungo termine. Questo perché si continuerà a ripetere lo stesso ciclo di produzione (sempre accompagnato dalla ricerca del profitto): industria impattante – rottura degli equilibri naturali – inquinamento – impiantistica del disinquinamento – ricomposizione degli equilibri. In altre parole se le azioni di disinquinamento rimangono interne al ciclo di produzione capitalistica, esse non solo forniranno nuovi profitti alla “classe inquinante” ma finiranno anche per dare l’alibi all’industria originaria per continuare imperterrita nel proprio modo di produzione.
In secondo luogo, non dobbiamo mai dimenticare il ruolo fondamentale dello Stato negli sforzi di ricostruzione delle condizioni naturali da parte del capitale. Infatti, come spiega bene O’Connor in [2] e [3], proprio perché le condizioni di produzione sono trattate dal capitale come una merce (malgrado nessuno le produca come tali) è lo Stato che le regolarizza e le mette a disposizione. Ad esempio, è lo Stato che legifera sulle concessioni minerarie, sulle politiche dell’urbanistica e del territorio, sulla costruzioni di grandi opere infrastrutturali. Di conseguenza senza l’intermediazione dello Stato (in senso lato, intendendo quindi anche gli Enti Locali) per il capitale non sarebbe possibile né l’appropriazione delle condizioni naturali (e dunque il loro sfruttamento e depauperamento) né i tentativi di mettere in piedi processi ricostruzione/disinquinamento che rimangano interni al capitale stesso.
In sostanza, quando si parla di questo tema ci troviamo sempre di fronte al “gioco di squadra” fra capitale e Stato. Ed è questo il motivo principale per cui le lotte sociali per l’ambiente sono per lo più dirette contro lo Stato o gli Enti Locali. Perché è l’apparato statale che legifera sulle norme ambientali (che dunque deve far rispettare) così come sulle decisioni per ripristinare le condizioni di produzione. Si pensi, ad esempio, alla questione dei rifiuti e degli impianti di incenerimento; oppure a tutto il settore delle “grandi opere” di infrastruttura; o ancora ai mancati controlli e monitoraggi sull’inquinamento provocato delle industrie a danno del territorio e delle popolazioni che vi abitano. Tutte le battaglie ambientali che nascono su questi temi hanno come primo interlocutore lo Stato. E ciò a ragione, perché è evidentemente giusto e strategico inchiodare alle proprie responsabilità gli apparati burocratici di Stato e gli Amministratori. Ma ciò deve esser fatto senza mai dimenticare quel gioco di squadra di cui parlavamo: in definitiva, senza mai distogliere lo sguardo da ciò che è dietro a tutto questo, ovvero gli interessi del capitale e di chi lo gestisce ricercando sempre e solo la realizzazione di profitto.

 

La risposta dei movimenti sociali

Per fortuna, oltre alle mosse del capitale per tentare di riparare (senza riuscirci) i disastri da esso prodotti, negli anni si sono creati numerosi movimenti sociali che hanno a cuore il problema dell’ambiente.
Vorremmo qui porre l’attenzione su un punto per noi fondamentale, e cioè che nessuna lotta per l’ambiente può essere non-di-classe. Questo non certo perché qualcuno o qualcosa lo vieti. Ma perché se si concorda sulla lettura dei problemi ambientali attraverso la categoria del conflitto capitale-natura, allora l’essenza dei movimenti per l’ambiente non può che essere quella di contrapposizione contro il modello di sviluppo capitalistico. Non è affatto vero che i problemi ambientali interessano tutti, come già abbiamo ricordato. Per una facile dimostrazione basta pensare, nelle nostre città, a chi inquina (non certo il semplice lavoratore) e dove si inquina (non certo nelle zone residenziali collinari). L’inquinatore è sempre chi detiene i mezzi di produzione (coadiuvato dalla complicità dell’apparato dello Stato) e i luoghi di inquinamento sono sempre le periferie, vero luogo di produzione e quindi di sfruttamento (umano e ambientale).
Insomma il concetto è chiaro: oggi è inestricabile il legame fra la lotta di classe per il superamento del modo di produzione basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e il tema della ricomposizione/ricostruzione di buoni rapporti uomo-natura. La lotta per superare i rapporti di produzione capitalistici, insomma, diventa un bisogno naturale oltre che sociale.

 

Proposte per obiettivi di lungo termine: teoria dei bisogni e pianificazione

Perseguendo la nostra convinzione sulla necessità di superamento del modello socio-economico capitalista al fine di risolvere anche le questioni ambientali, occorre anche proporre delle risposte effettive a questi problemi nell’alveo della nuova società che si prospetta. Ma al tempo stesso, è necessario individuare alcuni temi centrali dell’azione politica sui quali agire nell’immediato per tentare di difendere i rapporti sociali e ambientali dall’aggressione capitalistica. Senza questa duplice azione (una proposta di prospettiva a lungo termine e il perseguimento di obiettivi per l’oggi), il rischio è di essere subalterni al sistema che critichiamo, nell’un caso, e velleitari nell’altro.
Tuttavia, dato il contesto in cui si inserisce questo contributo, ci soffermiamo qui nel proporre alcuni obiettivi a lungo termine, rimandando ad altre occasioni alcune riflessioni sulle risposte politiche immediate.
Nel prospettare un’alternativa di società occorre anche riformulare una adeguata teoria dei bisogni, includendo in essi quelli di tipo sociale del rapporto uomo-società assieme a quelli di tipo ambientale del rapporto uomo-natura.
Ovviamente, un concetto di bisogno nettamente diverso a quanto invece emerge nell’ambito della società basata unicamente sulla proprietà privata, dove, per dirla ancora con Marx [6]:

“Ogni uomo s’ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo ad un nuovo sacrificio, per ridurlo ad una nuova dipendenza e spingerlo ad un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica […] Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l’uomo è soggiogato”.

La nuova società deve garantire i diritti primari dell’uomo (casa, lavoro, assistenza sanitaria, istruzione); deve prospettare un assetto di uguaglianza e rispetto fra gli uomini; deve anche garantire che lo sviluppo dell’uomo e della sua tecnica siano compatibili con le risorse naturali in cui vive e lavora. La cura e l’attenzione verso l’ambiente esterno all’uomo devono essere letti come una salvaguardia non solo della natura stessa, ma anche dell’uomo in sé. È infatti ormai evidente come una mancata attenzione in questo senso vada a incidere non solo sulla qualità dell’ambiente in cui viviamo – inquinamento crescente – ma ormai quasi direttamente sulla qualità di vita dell’uomo stesso – salute colpita dall’inquinamento.
In particolare la struttura politica di una nuova società dovrà liberarsi dall’imperativo del decisionismo a breve termine, spesso prerogativa della politica odierna e passata: infatti, qualsiasi problema che riguardi gli ecosistemi, le risorse energetiche e la ristrutturazione – almeno parziale – dei danni ambientali sino ad oggi prodotti dovrà essere affrontato con un nuovo calcolo dei “costi/benefici” a lungo termine; intrecciandosi con il largo spettro dei “bisogni” dell’uomo moderno sopra ricordati ed elaborando una strategia di sviluppo che preservi la globalità di questi ultimi.
In questo contesto occorrerebbe assumere come obiettivo strategico una seria politica delle risorse energetiche, iniziando ad avviare un monitoraggio approfondito di quel che la terra può ancora “offrire” come risorsa e quali siano gli effetti a lungo termine del relativo sfruttamento. Sia chiaro, questo tipo di conoscenza già esiste – in modo più o meno preciso – ma essa è posseduta dai gruppi industriali che operano nel settore, e si tratta ormai di aziende privatizzate dai processi di ristrutturazione capitalistica a partire dagli anni ‘80. Ci riferiamo ovviamente al grande bagaglio tecnico-scientifico posseduto dalle nostre aziende di settore, ENEL e ENI, che purtroppo non può essere più considerato “pubblico”, nel senso di direttamente controllabile dallo Stato. È evidente che se lo Stato si riappropriasse di questo tipo di aziende si otterrebbero due risultati immediati:

  • la disponibilità delle conoscenze acquisite sino a oggi (elemento fondamentale per monitorare le risorse e le potenzialità del territorio);
  • la possibilità di definire progetti mirati di ricerca e sviluppo in questo settore e basare su essi una strategia industriale nell’interesse unico della soddisfazione del “bisogno” energetico nazionale – comprendendo in esso anche la compatibilità con le fragilità dell’ambiente territoriale – e non la sterile e pura accumulazione di profitto come oggi è nei fatti.

In sintesi, in modo dirompente torna la necessità della nazionalizzazione (ruolo primario dello Stato) nella gestione delle risorse energetiche, così come in qualsiasi altro asset della società in cui viviamo: lo sfruttamento dell’ambiente (conflitto capitale-natura) e quello dei lavoratori (conflitto capitale-lavoro) sono due facce della stessa medaglia da affrontare e risolvere riconoscendo e rimuovendo la vera ragione di fondo. La gestione privata e la ricerca di profitto su aspetti quali le risorse naturali ed energetiche va inevitabilmente a collidere con i bisogni basilari dell’uomo, sfruttando in modo iniquo sia i lavoratori che l’ambiente in cui essi vivono.

 

Bibliografia

[1] K. Marx, Il Capitale, edizione integrale, Newton Compton Editori, Roma (2008).
[2] J. O’Connor, L’ecomarxismo, Data News, Roma (2000).
[3] G. Ricoveri (a cura di), Capitalismo, Natura, Socialismo, Jaca Book, Milano (2006).
[4] Istituto Gramsci, Uomo Natura Società – ecologia e rapporti sociali, Atti del convegno tenuto a Frattocchie (Roma) dal 5 al 7 novembre 1971, Editori Riuniti – Istituto Gramsci, Roma (1972).
[5] G. Nebbia, L’ecologia è una scienza borghese?, Ecologia Politica CNS – rivista telematica di politica e cultura n. 1 – aprile 2000, Anno X, fasc. 28.
[6] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino (2004).

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